L’uomo del nostro tempo e la vita quotidiana1
Vivere nella Modernità ha significato nascere e crescere in una civiltà il cui fondamento era la fede assoluta nell’uomo, nelle sue capacità di raggiungere qualunque obiettivo e traguardo. L’idea che illuminava tutta la Modernità era la fiducia assoluta nel progresso. Non era più necessario nessun altro punto di riferimento etico, filosofico o religioso, perché qualunque problema sarebbe sorto, qualunque sfida si sarebbe presentata, la scienza avrebbe dato la risposta a tuto e la tecnica avrebbe dato ai mezzi per risolvere qualunque crisi. Mediante il progresso, ogni generazione era destinata a stare esponenzialmente meglio di quella che l’ha preceduta.
Riflettere sulle cose, conservare i valori, stabilirne di nuovi in un mondo che in soli cento anni è mutato più di quanto non fosse mutato nei restati 4000 anni di civiltà sembrava fuori luogo, fuori tempo. Il denaro, motore e fine della nuova macchina che fu la Modernità, era diventato il pensiero fisso, il desiderio e il fine di tutte le cose, perfino dell’esistere stesso.
La Modernità è finita da diversi decenni. Si direbbe che proprio quando realizzò il sogno di fare l’impossibile e raggiungere la Luna, mentre credeva che qualunque altra meta nello spazio fosse a portata di mano, sulla terra tutti gli squilibri e le contraddizioni (nell’economia, nella natura, nel crollo della capacità progettuale della politica, atrofizzarsi della capacità delle culture “evolute” di pensare e riflettere sulle cose, nella sempre più vicinanza tra i popoli e le culture) esplodevano, lasciando l’uomo come nudo davanti al delirio della sua presunta onnipotenza.
La pandemia Sars Covid-19 ha dato il colpo di grazia all’autostima illimitata dell’individuo verso sé stesso, in un mondo dove la natura ha cominciato a ribellarsi, dove la guerra e la miseria estrema hanno rotto gli argini fra le nazioni, dove la concezione stessa di nazione ha perso il suo significato. Davanti all’avanzare di popolo interi che si sono messi in movimento in ogni angolo del mondo verso le aree più ricche, davanti a un virus che non conosce neppure il concetto di confini, la presunta onnipotenza dell’uomo è precipitata nel baratro della paura. Paura, insicurezza, il non sapere (davanti alla convinzione di sapere tutto), la percezione della fragilità umana davanti agli elementi e agli eccessi sono ora alla base della più grande crisi antropologica che l’umanità abbia mai sperimentato in tutta la storia della sua civiltà.
Tutti questi mali che stanno avvolgendo la terra, perfino la pandemia, sono solo sintomi. Non sono “i” problemi da risolvere. Sono solo i sintomi. Il problema che sta alla radice di ogni crisi sul nostro pianeta sta nella de-umanizzazione dell’uomo, nel declino “dell’umano”, di ciò che costituisce la sostanza stessa dell’essere ciò che siamo, di quell’umano che è “l’immagine e somiglianza di Dio” stesso e nel precipitare in un’esistenza senza più un significato e un fine, senza più la forza di pensare e di farsi domande con lo sguardo rivolto a cielo. Siamo diventati animali il cui unico fine è divorare, consumare nel minor tempo possibile la maggior quantità di beni possibili. Perfino i migranti che arrivano sulle nostre coste sui barconi o che premono sui confini del Nord America dal Sud e da Centro America, uomini, donne e bambini che non sanno nemmeno cosa significa vivere in una società del consumo, hanno questo sogno nel cuore: lasciare la miseria e diventare un giorno ricchi.
Ora abbiamo paura di tutto. Di chi ha il colore della pelle diversa, del terrorismo, dell’impoverimento, della liquefazione di confini tra le nazioni, incapacità dei nostri leader di proteggerci e aggiustare la rotta. E dalla paura nasce una società violenta, anti-solidale, sovranista, egoista che crede che isolandosi dal resto del mondo potrà garantire il suo benessere. “Prima l’America”, “prima l’Italia”, “prima il Nord”, “prima la Germania, la Francia, il Regno Unito sono frasi che stanno in questi anni risuonando in tutto il mondo. Forse l’evento storico più evidente e sintomatico è stata l’uscita del Regno Unito dalla UE, dietro la convinzione di poter auto determinarsi e mettere i propri interessi di nuovo in cima all’agenda. Questo, in un mondo in cui l’interconnessione di tutto e l’interdipendenza dei popoli ci dice che, da ora in avanti, o ci salviamo tutti insieme o andiamo verso la rovina totale, tutti insieme.
Capire la direzione è diventato impossibile in un mondo dove la politica, la filosofia, la religione e l’economia stessa hanno perso il loro vero ruolo e chi urla di più “fa”, “confeziona” la verità mentre il popolo segue chi urla in modo più convincente.
La violenta frantumazione e polarizzazione della società attorno agli urlatori più forti, l’aggressione e il fazionismo come linguaggi della politica e di ogni ambito sociale sono, ormai, la (purtroppo) nuova normalità, mentre le persone vivono semplicemente aspettando che la tempesta che sta attraversando il mondo finisca e tutto torni “come prima”, senza avere una percezione che il “prima” non era affatto normale e che pianeta e l’umanità erano già seriamente malati.
Lo svuotamento dell’umano dall’uomo ha fatto sì che anche le relazioni umane diventassero un peso insopportabile, almeno che non si tratti di condividere il divertimento. Non a caso durante il tempo del lockdown e di tutta la crisi pandemica la violenza domestica è cresciuta, in Italia, del 70%, le separazioni e i divorzi hanno conosciuto un’impennata e la famiglia stessa sembra essere divenuta un inferno, qualcosa da cui scappare. Il collasso dell’umano ha semplicemente portato all’incapacità delle persone di convivere, condividere gli stessi spazi ristretti, di percepire l’altro come “valore per la mia vita” e viceversa. Questo, a fronte di un tempo in cui, quando in Italia si viveva nella povertà, abitare in dieci dentro tre stanze, dormire in tre o quattro in un letto era un fatto normale.
Contemporaneamente la tecnologia continua a farci percepire di avere il mondo sulla punta delle dita, ma è solo una percezione virtuale, prodotta attraverso uno schermo di un pc o du uno smartphone, promosso dalla potenza dei grandi Social Network mondiali, che hanno potenziato la componente narcisistica e violenta delle persone, facendo loro credere che il prestigio della propria vita dipende dai “likes” (o “mi piace”), dove la caduta e la morte improvvisa di un turista, per infarto, non è un’occasione per prestare soccorso quanto piuttosto quella per tirare fuori velocemente lo smartphone, fare un selfie con il morto sullo sfondo ed essere i primi a postarlo sui Social.
Questa è la madre di tutte le crisi: il collasso dell’umano.
Non è al “prima” che dobbiamo tornare. E la nuova umanità nascente che dobbiamo aiutare a partorire sé stessa.
La Parrocchia nel cuore di mutamenti globali e permanenti
Nella società odierna, la stragrande maggioranza della popolazione non ha un rapporto con la Parrocchia e, il più delle volte, non ne conosce la natura, il fine e il funzionamento. Per molta gente la stessa parola “parrocchia”, come le parole “chiesa”, “comunità”, “comunità ecclesiale” non dicono nulla.
Molti si fermano all’idea che la Chiesa, nella sua “versione” locale, sia identificabile con un prete che celebra dei riti (la Messa, funerali, battesimi, matrimoni, funerali) e che svolge una funzione amministrativa e di archivio (rilascio di certificati, disbrigo pratiche di matrimonio, ecc).
Nella sua accezione più ampia, l’immagine che viene in mente quando si dice “chiesa” è: istituzione, Vaticano, organizzazione di potere, gerarchia.
In Europa, è in atto un massiccio processo di scristianizzazione che è cominciato, nel dopoguerra, per molti aspetti, anche prima, dai paesi del Nord e si è diffuso muovendosi verso sud. Oggi, i paesi del Mediterraneo (Italia, Spagna, Portogallo) paesi di forte identità e radici cattoliche, stanno subendo il processo di erosione della fede e intere generazioni stanno crescendo senza aver mai avuto un vero contatto con la Parrocchia. Anche nel caso di famiglie che continuano a chiedere i sacramenti, il rapporto con la Parrocchia si è drammaticamente ridotto all’aspetto formale e burocratico.
Benedetto XVI, nell’omelia della S. Messa per l’apertura dell’Anno della Fede (11 ottobre 2011), ebbe a dire: “In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi“.
Laddove persiste ancora un retroterra culturale cattolico, vi sono città e paesini che vedono resistere fasce di popolazione che mantengono un rapporto più vitale con la parrocchia. Il prete è ancora una figura importante nella vita dei singoli e delle famiglie e le tradizioni religiose sono uno dei pochi baluardi di una identità cristiana che, nelle nuove generazioni, va comunque scomparendo.
In questo quadro, non proprio roseo (ma da non recepire con il pessimismo della rassegnazione!), la parrocchia viene vista sotto molte ottiche: un’agenzia di servizi sociali, un centro sociale per bambini e anziani, un ente che organizza le feste e le tradizioni popolari, un punto di riferimento per la propria crescita spirituale.
Uno degli aspetti più critici della crisi della parrocchia, oggi, è la convinzione che tutto quello che riguarda la Chiesa sia un affare del prete. La gente, quella che ancora frequenta, cerca nella chiesa lo spazio di un rapporto personale con Dio ma non ha alcuna consapevolezza che, nel mondo attuale, la trasmissione della fede non può più essere creduta un dovere del prete o delle suore. Una sfida epocale è far crescere una nuova coscienza di Chiesa, una nuova consapevolezza che la Parrocchia è “comunità, “fraternità”, che essa appartiene a tutti i battezzati e tutti sono responsabili della sua crescita.
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1 I testi delle sezioni del menù “missione” e “valori”, con i relativi sotto-menù, sono stati elaborati da don Enzo Caruso.