12 Novembre 2023 da Andrea Lavazza e Riccardo Maccioni
La crisi in Medio Oriente per l’attacco di Hamas cui è seguita la dura reazione di Israele sollecita le religioni al servizio della convivenza. Il rabbino Arbib e l’imam Pallavicini a confronto
ll tragico incendiarsi della crisi mediorientale provocata dal feroce attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas contro Israele e la durissima reazione dello Stato ebraico chiama in causa diversi fronti. Dalla politica internazionale ai rapporti di forza in ambito locale, fino alla drammatica questione umanitaria contrassegnata dalla vicenda degli ostaggi israeliani alla tristissima conta giornaliera dei morti a Gaza. In uno scenario tanto cupo le religioni possono avere un ruolo fondamentale, come evidenziano i ripetuti appelli alla pace lanciati in più occasioni da diversi leader a partire da papa Francesco e, triste contrappasso, l’ondata di antisemitismo che percorre il mondo con numerosi focolai particolarmente violenti in Europa oltreché nello stesso Medio Oriente. Di questi argomenti “Avvenire” ha parlato con rav Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, e l’imam Yahya Pallavicini, vicepresidente Coreis (Comunità religiosa islamica italiana).
La prima domanda potrebbe essere anche la conclusione del nostro discorso e riguarda le speranze in una soluzione della crisi mediorientale. Quante possibilità di pace ci sono oggi?
Pallavicini: Non c’è mai un momento in cui spiritualmente o dottrinalmente si debba rinunciare a perseguire la pace, anche se volendo pensare a una pacifica convivenza tra popoli e credenti le condizioni in Medio Oriente appaiono molto complesse. I problemi sono soprattutto legati alla sfera orizzontale per cui si devono cercare soluzioni politiche, diplomatiche realmente sostenibili, evitando proposte vecchie o nuove che non siano percorribili.
Arbib: È complicato parlare di pace in questo momento, anche se ovviamente è la speranza di ognuno di noi e non esiste momento o situazione in cui un credente possa rinunciare a perseguirla. I nostri maestri dicono che se non c’è pace non c’è niente. Come ci si può arrivare non lo so. Credo che alla base ci sia innanzitutto un problema educativo e culturale, che sia necessario smettere di educare all’odio, come è avvenuto per intere generazioni. Prendiamo la parola “shalom”, pace, che ha la medesima radice in arabo e in ebraico. Viene da “shalem” che sta a indicare l’integrità, concetto che può portare a dire “sono perfetto, gli altri devono adeguarsi alla mia perfezione” o invece essere un modo per riconoscersi imperfetti, pieni di difetti e bisognosi di migliorarsi. Il primo approccio porta al conflitto, il secondo può aprire alla pace. Non è semplice, ovviamente, ma ammettere i propri limiti è un punto di partenza.
A proposito di educazione alla pace, il bambino che ha visto i genitori o un fratello uccisi da Hamas finirà per odiare i palestinesi. E altrettanto sarà per un abitante di Gaza che ha avuto parenti uccisi nei bombardamenti israeliani.
Arbib: Secondo me il parallelismo non funziona per il semplice motivo che il sistema educativo israeliano non forma all’odio. Lo può confermare chiunque sia entrato in una scuola dello Stato ebraico. Non bisogna dimenticare che oltre il 20% della popolazione di Israele è araba. Io sono stato ricoverato a Gerusalemme e il mio medico era arabo ed è assolutamente normale che lo fosse. Una cosa che non accade dall’altra parte non è pensabile a un medico ebreo. A Gaza o in Cisgiordania, in questo momento non esiste l’idea della convivenza. Con ciò i morti sono morti, i bambini sono bambini ed è sempre una tragedia. Però non è lo stesso: se diciamo che è tutto parallelo, non ne usciamo, non capiamo cos’è successo. Non riusciamo a capire che c’è una differenza fondamentale fra quello che ha fatto Hamas e quello che sta facendo Israele. E il problema educativo non riguarda solo palestinesi e israeliani o il Medio Oriente ma esiste anche qui in Europa.
Noi assistiamo a un’ondata di antisemitismo, molto particolare che va oltre il rispolverare le svastiche o inneggiare a Hitler. Sinceramente mi preoccupa di più quello che vediamo nelle università americane. Una professoressa della Cornell University ha detto che l’attacco di Hamas le aveva procurato euforia, era stato energizzante. Di fronte a episodi come questi, dobbiamo porci delle domande. Viviamo una schizofrenia: da una parte si ricorda la Shoah, si parla dell’importanza della memoria e dall’altra può continuare un antisemitismo che si maschera da amore per i palestinesi. Evidentemente c’è qualcosa che non ha funzionato nel nostro modo di comunicare. Siamo davanti a un fallimento educativo. Penso agli studenti universitari che tirano fuori senza problemi vecchi pregiudizi antisemiti, che usano formule di una pericolosità terribile, come il paragone tra Israele e nazismo, che parlano di ebrei nazisti.
Un fenomeno cominciato negli anni 70. Mi domando: come si fa a celebrare la Giornata della memoria e cosa si fa il 27 gennaio se poi si accettano slogan del genere.
Pallavicini: Condivido l’impostazione metodologica di rav Arbib, penso anch’io che si rischi una esasperazione inopportuna di parallelismi e che si debba affrontare ogni identità secondo la propria radice, storia e sviluppo, senza dover creare delle artificiose simmetrie. In questo senso dico che c’è una crisi dell’educazione religiosa nel mondo arabo in generale e in particolare in alcune aree, compreso quella riguardante il popolo palestinese. Non parlo solo della prospettiva islamica perché palestinesi sono anche cristiani, ebrei. Se non c’è un’educazione né a una religione né alla relazione tra comunità religiose, non ci si forma alla possibilità di una convivenza, di una collaborazione, di una vicinanza. E di conseguenza vengono meno tanto l’idea del popolo che di cittadinanza, creando qualcosa che non è appunto identità culturale, non è identità religiosa.
Su questa situazione specula Hamas, che ha usato i finanziamenti ricevuti dal mondo arabo e dall’Occidente non per il bene del popolo palestinese come sviluppo educativo e di una nuova dirigenza, anche economica, ma per costruire una società sotterranea in una città sotterranea. Se Hamas costruisce i tunnel non è per salvaguardare la fede e tantomeno per tutelare i diritti del popolo palestinese. Non investe in infrastrutture, in possibilità di sviluppo, magari in un orizzonte di pace, ma su qualche cosa che è alternativo, basato comunque su una volontà di speculare sulla rivalsa, per creare un’alternativa al vicino.
C’è poi l’aspetto legato alle ricadute in Occidente.
Pallavicini: La domanda è: quanto ne sanno e cosa intendono le persone che a centinaia o migliaia vanno nelle piazze d’Europa a chiedere di liberare la Palestina? Pensano alla Palestina conseguenza di un accordo diplomatico, politico giuridico con la concessione da parte di Israele e di alcuni territori o si rifanno invece a una radice territoriale precedente e quindi a eliminare il diritto di Israele a esistere? Se non c’è la chiarezza su cosa si intende per liberazione e per Palestina il rischio è che si arrivi a una sovrapposizione con l’ideologia terroristica dello statuto di Hamas, che cioè per difendere la libertà e i poveri palestinesi vadano eliminati Israele e gli ebrei. Da qui l’onda di antisemitismo cui si sta contrapponendo in Occidente, soprattutto in Europa, una contro onda per la quale, invece, la difesa di Israele e degli ebrei passa dall’eliminare anche la voce dei musulmani che con Hamas non ha mai avuto nulla da condividere.
Questa mancanza di educazione sulla religione come identità e autenticità rischia di far veramente esasperare l’antisemitismo in maniera incontrollabile e, parallelamente, in opposizione, di creare una discriminazione verso la vera possibilità di un pluralismo, di un dialogo interreligioso che abbia tra gli interlocutori altrettanto degni anche dei musulmani autenticamente religiosi. Adesso per molti islam è sinonimo di Hamas. Ed è inaccettabile. Possibile che non si possa difendere la dignità di ogni popolo, compreso quello palestinese, senza passare per antisemita? Si può difendere il diritto degli ebrei, il diritto degli israeliani, il diritto dei palestinesi, senza essere rappresentati o strumentalizzati da politici o da guerriglieri o da terroristi? Dove parlando di politici intendo quelli dalla discutibile capacità di gestione degli interessi del bene comune.
A questo proposito cosa si può fare per evitare, dal vostro punto di vista di leader religiosi, che la politica prenda il sopravvento e quindi strumentalizzi la fede, come già in realtà sta succedendo? Quali sono i passi possibili in questo momento così difficile per districare questo intreccio malato?
Arbib: Bisogna educare alla convivenza e questo è un elemento essenziale. L’abbiamo già detto. Infatti va ricordato, mentre spesso passa sotto silenzio, che in buona parte dei Paesi arabi non ci sono più ebrei. Stiamo parlando di 900.000 persone che dal 1948 sono state sostanzialmente espulse dalle nazioni arabe. Io vengo dalla Libia. Avevo 9 anni e ricordo ancora i poliziotti che vennero a casa nostra a dire che non erano in grado di garantire la nostra sicurezza e quindi ci consigliarono di andarcene. Qualcosa perfino di gentile rispetto ad altre situazioni. Resta il fatto che in tutti i Paesi arabi in questo momento non ci sono più di 4.000 ebrei. Non dimentichiamo che in passato i rapporti fra le due religioni erano molto diversi, non tutti rose e fiori, non mancarono persecuzioni, eppure il più grande pensatore ebraico dell’ultimo millennio, Mosè Maimònide, ha scritto una grande quantità di opere e una sola è stata scritta in ebraico, tutti le altre sono in arabo, la lingua franca anche per gli ebrei del XII secolo in Europa. Stiamo parlando di qualcosa di clamoroso, per gli ebrei non è successo con nessun’altra lingua, sta forse accadendo oggi con l’inglese, che è ormai lingua universale.
Il problema, dunque, è sempre lo stesso: si è persa l’idea di convivenza. Così l’idea di due Stati non funziona per un motivo molto semplice. La pace deve mettere fine al conflitto, non essere semplicemente una tregua che sia la preparazione della prossima guerra. Quando ci fu il ritiro da Gaza deciso da Sharon, con forti lacerazioni in Israele, si sperava in un nuovo inizio. Ma così non è stato, come si è visto con il 7 ottobre.
Pallavicini: Qui forse non parlo da teologo. Ma parlo comunque da musulmano, coerentemente con le ricadute di un’ispirazione che è rivolta anche alla cittadinanza e quindi alla responsabilità politica. Per me, una libera democrazia è la possibilità per cittadini e credenti di poter concorrere alla costruzione della società anche in forma critica. In questo senso, Israele può essere un modello interessante perché, pur essendo ispirato in buona parte da una impostazione sionista, ha sviluppato una interpretazione della democrazia che prevede il concorso attivo a tutti i livelli di cittadini di varie fedi e varie culture, compresi i musulmani, che sono cittadini tanto quanto gli ebrei. E arabi ricoprono posti anche di dirigenza nell’ambito sanitario, nell’ambito giuridico, nell’ambito politico.
Se questa è una opportunità che vale la pena di sviluppare, anche la proposta di due popoli e due Stati rischia di non essere la migliore. Io sono critico da cinquant’anni di questa possibilità. Uno Stato palestinese fatto esclusivamente di arabi, palestinesi, monoculturale, di musulmani islamisti rischia di diventare un’enclave artificiosa, soffocante per l’umanità, la sensibilità, l’intelligenza e anche la fede di chiunque. Quello che serve, a mio parere, è formare una classe dirigente palestinese affidabile, che voglia veramente fare gli interessi del proprio popolo e creare una cittadinanza che sia aperta ai diritti di tutti. Il collante dello Stato non può essere l’odio verso Israele. Bisogna liberarsi di Hamas, che ha strumentalizzato la religione. Hamas, come i taleban in Afghanistan e Hezbollah in Libano, non può costituire una rappresentanza autentica di qualsiasi interesse, di qualsiasi popolo. Andare a trattare con queste tre entità, lo dico da guida religiosa ma anche da cittadino europeo, è sbagliato, perché sacrifica i valori universali della fede.
Questa sua posizione sarà certamente condivisa dalla maggioranza dei nostri lettori, e giudicata coraggiosa, ma non pensa che sia una prospettiva assai minoritaria nel mondo islamico, soprattutto a livello internazionale?
Pallavicini: No, non lo penso, perché non lo è. In questo momento sta certamente emergendo in maniera molto preoccupante una visceralità che ignora i fatti, tra cui il contenuto dello statuto islamista di Hamas.
Ma i fondamenti dell’islam vanno nella direzione della pacificazione, della conoscenza, della giustizia e della fratellanza. Rischiamo di dimenticare che la parte maggioritaria della gente comune musulmana nel mondo continua a cercare di perseguire i principi e i valori di pace, giustizia e bene. Quella cui assistiamo è una crisi politica diffusa, cui si accompagna una crisi intellettuale tra i sapienti musulmani. Parte dell’élite sapienziale è decaduta, ma grazie a Dio il popolo persegue obiettivi semplici e autentici.
Quando però irrompe l’irrazionalità, è difficile evitare i pericoli di una deriva di odio. Per cui adesso, di fronte alla guerra, diventiamo antisraeliani. Io sono preoccupato per le conseguenze del conflitto in termini di una mancanza di discernimento e di saggezza tra i musulmani europei. Si fanno prevalere l’odio e una contrapposizione senza ragione, l’unica ragione cui appellarsi diventa l’antisemitismo, ma è una ragione senza fondamento.
Che cosa possono fare allora le religioni?
Arbib: La politica si occupa innanzitutto del qui e ora. È giusto che faccia compromessi, sono assolutamente favorevole ai compromessi, i compromessi sono un’ottima cosa. Le religioni dovrebbero invece segnare dei limiti non superabili, dovrebbero dire che non è più accettabile la violenza in nome di Dio. Questo deve essere chiaro: non è accettabile uccidere in nome di Dio; tutte le religioni del mondo devono bandire questa giustificazione. In modo altrettanto chiaro non sono accettabili i rapporti con le organizzazioni terroristiche. Lo deve fare l’islam, lo deve fare l’ebraismo, lo devono fare le Chiese cristiane. Il terzo elemento, ancora, è quello educativo. C’è una cosa che mi preoccupa molto: siamo di fronte a un’ondata di antisemitismo estremamente pericoloso perché è in qualche modo inconsapevole, anche a motivo dell’ignoranza dei fatti da parte dei giovani.
Parlo, ad esempio, ripeto, degli studenti universitari che scendono in piazza. Si tratta di persone che sono convinte di lottare per il bene contro il male. E questo per me è enormemente problematico. Mi fanno meno paura le persone apertamente orientate a commettere un crimine. Il 900 è stato un secolo in cui, in nome del bene, in nome dell’ideologia, si sono uccisi milioni di persone. I carnefici erano convinti di agire per il bene del proprio popolo o dell’umanità.
Abbiamo pertanto il dovere di fare capire che stanno sbagliando prima che sia tardi.
Il dialogo interreligioso ha fatto grandi passi avanti. Dovremmo dare più pubblicità al fatto che esiste un consiglio europeo ebraico-islamico che raggruppa dal 2016 rabbini e imam. Ma il punto, come diceva il Rav Laras, è quanto dai vertici arriva a valle. Quanto dei grandi passi fatti a livello di dichiarazioni si è riverberato sui comportamenti delle diverse comunità? I fenomeni culturali non finiscono improvvisamente.
Pallavicini: Vorrei qui ricordare alcuni elementi storici. Quando in passato gli ebrei sono stati discriminati e scacciati in Occidente, durante l’Inquisizione, vennero accolti e sostenuti dal mondo islamico, in quanto ebrei e in quanto vittime. Oggi questa naturale sensibilità del mondo islamico, assai diffusa, è stata interrotta da un pregiudizio interpretativo. Quel naturale istinto di ospitalità e fratellanza che il mondo musulmano coltivava si è infranto sulla nascita dello Stato d’Israele. L’idea distorta è che gli ebrei non sono più accettabili perché si sono impadroniti o hanno invaso il territorio dei palestinesi musulmani. Non c’è più coerenza tra principi universali della fede e tradizione di convivenza pacifica.
Il mondo islamico e l’umanità intera vivono la strumentalizzazione perversa ed eversiva dell’islamismo jihadista, che ha avuto come principali vittime i musulmani. Ma una collaborazione interistituzionale tra sapienti musulmani e istituzioni dell’universo islamico, dal Marocco all’Indonesia, dall’Azerbaigian al Kazakistan e all’Egitto, ha trovato il modo di reagire a questo cancro interno fatto da Isis, al-Qaeda, Boko Haram, Shabaab… Si sono prodotti documenti e politiche e anche di carattere interreligioso e interistituzionale per denunciare questo cancro interno. In quei Paesi il mondo islamico dei sapienti, dei teologi, dei giuristi e dei maestri musulmani con la ricaduta educativa sui cittadini ha reagito attivamente su tutti i piani per isolare e distinguersi da questa perversione del jihadismo integralista. Perché non si pensa di adottare le stesse misure politiche e le stesse misure educative anche contro taleban, Hezbollah e Hamas? Perché c’è un’omertà su questo?
Per uscire da questa crisi, basterebbe abbandonare le logiche ristrette che la politica dei nazionalismi di stampo occidentale ha imposto in alcune aree alle religioni, ebraismo e islam compresi. La “Terra Santa” come ci insegnano i fratelli ebrei, è la terra “del Santo”, appartiene al Signore di tutte e tre le religioni di Abramo. I veri credenti non si lasciano strumentalizzare nei giochi di un “divide et impera” che forse può ricostruire i sogni di gloria di califfati religiosi o “paradisi in terra”, ma al prezzo di un guerra fratricida che non può essere lo scopo di nessuna “ricostruzione” religiosa.
fonte: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/l-escalation-medioriental-6aef1653c9f0486f828a17100bd9a623
foto: imam Yahya Pallavicini e il rabbino Alfonso Arbib nella sede di Avvenire – –